ROMA FILM FEST 2016

di Vera Viselli 

L’undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma (dal 13 al 23 ottobre 2016), diciamocelo, poteva tranquillamente non andare così bene: infilata – come al solito – tra i Festival di Venezia e Torino, e quest’anno anche tra i due gravi terremoti che hanno colpito l’Italia (quello del 24 agosto e quello del 30 ottobre), con una situazione municipale forse tra le più complicate che la Capitale si è mai ritrovata a vivere, ha tenuto benissimo, in fin dei conti.

Partiamo dalla Selezione Ufficiale: tra i 44 film in concorso, il primo da citare è sicuramente Afterimage, opera ultima del grande regista polacco Andrzej Wajda (scomparso purtroppo il 9 ottobre). Probabilmente, nelle intenzioni, questo non voleva/doveva essere il testamento cinematografico di Wajda, ma tant’è: la vicenda del pittore Strzeminski, professore d’arte alla Scuola Nazionale di Belle Arti di Lódź durante la Polonia postbellica, riflette una sconfitta pressoché totale non solo di un uomo ma anche di un artista. Letteralmente venerato dagli studenti, il pittore viene ostacolato prima dalla polizia, poi dalle autorità universitarie ed infine dal ministro stesso della Cultura, in quanto non vuole asservire la sua arte all’ideologia politica del Partito, finendo perciò per essere espulso dall’università e dal sindacato. Senza lavoro e già senza un braccio ed una gamba, persi durante la guerra, Strzeminski arriva anche a soffrire la fame. Nessuna suspense: si tratta di un racconto molto amaro sul senso di ingiustizia, sull’abbandono e sulla rassegnazione. Quella del protagonista, testardo ma passivo nella praticità della sopravvivenza, che lo porta a rifiutare ogni tipo di relazione umana, persino quella della figlia. E purtroppo è questa la fredda ‘immagine residua’ che ci ha lasciato Wajda.

"Powidoki" rez. Andrzej Wajda Fot. Anna Wloch www.annawloch.com
Afterimage di Andrzej Wajda. Foto: Anna Wloch www.annawloch.com

A seguire Manchester by the sea, di Lonergan: Lee (Casey Affleck), costretto a tornare nel Massachusset per prendersi cura del nipote sedicenne dopo la morte del fratello, si trova a dover fare i conti con il passato, la moglie e le problematiche relative alla comunità natale, quella del mondo operaio del New England dove i sentimenti non possono essere mostrati se non in chiave ironica.

A proposito di terremoti, Grau con il suo 7: 19 ha affrontato quello, terrificante, che colpì Città del Messico il 19 settembre 1985. In un edificio di sette piani sono appena arrivati tutti gli impiegati, convocati prima per una riunione straordinaria, quando all’improvviso il palazzo crolla. Alcuni si trovano ancora al piano terra, tra cui il responsabile, il dottor Pellicer (Demiàn Bichir) e Martin, il portinaio notturno. Entrambi si risvegliano sotto le macerie, incastrati ed immobilizzati, con lo spettro della morte che aleggia tra la polvere ed il buio, mentre in loro si alternano sentimenti di rabbia, paura e sensi di colpa. Questi due universi così diversi si ritrovano, per un tragico scherzo del destino, ad imboccare, insieme, il sentiero che li condurrà alla morte, intrappolati nello stesso momento e nello stesso luogo. Un luogo claustrofobico all’ennesima potenza che, volente o nolente, accelera tremendamente l’abbattimento di quei confini che fino ad allora li avevano divisi.

7-19
7:19

Non potevano mancare, ovviamente, i documentari: quello di Werner Herzog, Into the Inferno, sui vulcani, visitati dal regista dieci anni fa insieme al vulcanologo Clive Oppenheimer. Partendo dall’Indonesia ed arrivando fino alla Corea del Nord, Herzog immerge le sue telecamere in queste profonde gole terrestri, con una certa ossessione ed estasi nei confronti del cataclisma che possono generare, conscio però che dalla distruzione può esserci un nuovo inizio. E quello di Paul Dugdale, The Rolling Stones Olè Olè Olè!: a trip across Latin America, che ha seguito la rock band ad inizio anno in giro per le città latino americane, fino alla loro prima esibizione all’Avana.

C’è poi il Fritz Lang di Maug, non tanto un ritratto del genio perverso del regista quanto piuttosto una ricostruzione delle origini di M – Il mostro di Düsseldorf, con flashback spesso noiosi riguardanti il suo passato da soldato, con un finale alla Truman Capote ed un’accusa non troppo nascosta sulla sua colpevolezza per l’omicidio della prima moglie.

Due battute anche su Noces di Streker (ennesimo femminicidio culturale: se sei pakistana, o accetti di rispettare le tradizioni o vieni uccisa dal tuo stesso fratello) e su The Hollars di Krasinski (un dramedy famigliare in cui tutto accade fin troppo velocemente per essere anche solo lontanamente realistico, anche se ci si diverte molto nel vedere gli attori in ruoli del tutto inaspettati).

London Town
London Town

Una menzione particolare per Alice nella Città, il concorso per ragazzi: Captain Fantastic di Matt Ross (con Viggo Mortensen) ha ottenuto il Premio del pubblico come Miglior Film; Louise en hiver di Laguionie è uno dei film più romantici e malinconici del Festival – una 70enne, dimenticata dai villeggianti in una località turistica, dove rimane per tutto l’inverno e la primavera seguenti, si rimbocca le maniche e si trasforma in una ‘Robinson Crusoe in gonnella’, adattandosi alla solitudine ed alla desolazione che la circonda. Disegnato magnificamente – alcune sequenze sembrano addirittura quadri di Magritte -, con i colori pastello che cercano di dare una sensazione di calore ad una situazione di totale abbandono, il film racconta con infinita dolcezza quanto una donna, seppur in là con gli anni, possa riuscire a trovare in sé una robustezza ed una forza tali da non farla arrendere alle avversità, ricordandoci quanto poco umani possiamo rivelarci e quanto, invece, possa esserlo e diventarlo un cane; London town di Borte vede Shay, appena quindicenne, letteralmente catapultato nell’età adulta per via di una madre che ha abbandonato lui e la sorella più piccola per inseguire i suoi sogni musicali ed un padre immobilizzato per un incidente sul lavoro, mentre in una Londra di fine anni ’70 punk e thatcherismo si trovano ai ferri corti e il Fronte Nazionale rivendica ad ogni angolo la supremazia dei bianchi. Ma Shay incrocia il suo cammino con quello di Strummer (leader dei Clash) uno straordinario Jonathan Rhys Meyers a metà tra una rockstar ed un fratello maggiore, che vale l’intero film; infine, Kubo e la spada magica, a breve nei cinema, di Travis Knight, uno dei migliori esempi animati di storie per bambini su come affrontare il dolore.

Infine, i grandi nomi. Per gli Incontri Ravvicinati, il pubblico ha quest’anno potuto ammirare, tra gli altri, Tom Hanks (che ha ricevuto il Premio alla Carriera 2016), che nel giorno di apertura ha presentato anche il danbrowniano Inferno; poi Meryl Streep, Oliver Stone, Viggo Mortensen, Bernardo Bertolucci, David Mamet, Daniel Libeskind, Don DeLillo, Roberto Benigni, mentre tra le Retrospettive vanno segnalate quella sulla politica americana (in occasione delle elezioni presidenziali Usa) e su Tom Hanks. Tra gli Omaggi, Michael Cimino, Gian Luigi Rondi, Luigi Comencini, Gregory Peck, Gillo Pontecorvo, Fritz Lang, Dino Risi.

Kubo e la spada magica
Kubo e la spada magica
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