IL MURO. Le ragioni della scelta del titolo vanno ricercate nel 1939, non molto indietro nel tempo, anno in cui Jean Paul Sartre pubblicava la raccolta di racconti intitolata Il muro. Una suggestione non casuale, per la quale il muro è simbolo di limite e proiezione, confine e contenitore, punto di partenza attraverso il quale si deve aprire un varco (o molti varchi).

Il muro è inoltre uno spazio plasmabile, un possibile supporto di affissione e quindi di comunicazione, un luogo in cui uno sguardo attivo e critico incontra e indaga una realtà complessa, soggetta a continui mutamenti.

Calcando la dimensione e la spazialità proprie di uno schermo bucato, come una fessura aperta nel campo del visivo, IL MURO accoglie contenuti che fondano la propria ragion d’essere sull’idea di una Storia dell’arte, di una Critica dell’arte e della cultura visiva basate sulle pertinenze tra discipline, che vanno contro la settorializzazione del sapere. Uno sfondamento di compartimenti che stagni non lo sono stati mai.

Il formato bilingue del corpus testuale intende collocare la rivista all’interno di un raggio di fruizione internazionale, mantenendo visibili le radici italiane che si pongono come base concettuale in un’ottica glocal.

Questa visione interdisciplinare sarà inoltre struttura portante di una serie di saggi e articoli legati alla filosofia, alla psicologia dell’immagine, alle problematiche relative al restauro dell’arte contemporanea, alla complessità dei new media e ad altri temi che abbracciano metodi e sguardi critici innovativi e rivisitati rispetto ai percorsi accademici e storicizzati.

IL MURO è il frutto della preziosa interazione tra giovani professionisti del settore storico-artistico su scala nazionale e internazionale. L’attenzione particolare dedicata al contemporaneo si accompagnerà a un’accorta e imprescindibile consapevolezza del passato, in linea con l’ottica trasversale di cui il progetto si fa portatore, in ambito temporale oltre che disciplinare.

Travagliato dalla pioggia senza tregua, dalla mise en scène poliedrica del reale, il muro si fa superficie del compimento in fieri di una storia dell’occhio.

« […] infine guardavo lo schermo, scoprivo un gesso fluorescente, paesaggi lampeggianti, striati da rovesci d’ acqua; pioveva sempre, anche col sole alto, pioveva anche negli appartamenti; talvolta un asteroide fiammeggiante attraversava il salotto di una baronessa senza che ella sembrasse stupirsene. Mi piaceva quella pioggia, quell’inquietudine senza tregua che travagliava il muro su cui era lo schermo.[…] Il cinema era un’apparenza sospetta che amavo perversamente per quello che ad esso ancora mancava […] assistevo ai deliri d’una parete».

(J.P. Sartre, Le parole, 1964)