JEAN-PAUL SARTRE, IL MURO

Einaudi, Torino 2015

Era il gennaio del 1947 quando Il muro (Le Mur, Éditions Gallimard, Paris 1939), proposto da Giulio Einaudi, approdava nel circuito italiano bersagliato da pesanti condanne e grida allo scandalo. L’opera, pubblicata per la prima volta in Francia nel febbraio del 1939, aveva aperto il cosiddetto affare Sartre, di fronte al quale la critica, così come l’opinione pubblica, si trovavano ferite da una profonda spaccatura. Ognuna delle cinque novelle di cui si compone la raccolta – Il muro, La camera, Erostrato, Intimità, Infanzia di un capo – si sviluppano su sfondi perturbanti di follia, morte, perversioni, inganni, claustrazione, assassinio, frigidità e impotenza. Il muro seguiva di pochi mesi La Nausea, romanzo d’esordio dell’allora trentatreenne Sartre, con il quale si era imposto all’attenzione della critica aggiudicandosi entusiasmati consensi. Ne La nausea, sotto forma di diario filosofico, Sartre aveva affidato al flusso di coscienza di Antoine Roquentin la disamina su vacuità e incoerenza del vivere. Le stesse riflessioni tornano nelle storie de Il muro, sotto una veste ancora più spregiudicata e violenta. La nausea e Il muro si collocano dunque, nella produzione sartriana, come prose romanzesco – filosofiche le cui tematiche avrebbero trovato, nel saggio del 1943 L’essere e il nulla, una più sistematica articolazione sul piano teorico. Così si esprime Sartre: «Nessuno vuole guardare in faccia l’Esistenza. Ecco, poste di fronte, cinque piccole disfatte – tragiche o comiche – cinque vite. Ogni tentativo di fuga è impedito da un Muro. Fuggire dall’Esistenza è ancora esistere. L’Esistenza è un pieno che l’uomo non può abbandonare» (J. P. Sartre, OEuvres romanesques, cit. p. 158, 1807). Il pieno a cui il filosofo fa riferimento per definire l’Esistenza, è assimilabile al concetto stesso di nausea, ossia il senso di oppressione, di sazietà rispetto a un vuoto e a un’insensatezza di cui la vita è riempita e da cui l’uomo è toccato e schiacciato. Alla luce di tali considerazioni si può dedurre che la pietra dello scandalo di quell’affare Sartre non risiedeva tanto nel contenuto triviale della raccolta de Il muro, quanto nella crudezza, soprattutto lessicale, con cui venivano designati vizi e debolezze dei cosiddetti salauds, appellativo utile a identificare i borghesi più deplorevoli. Il muro è dunque un’indagine spietata sulle dinamiche del fallimento. Occorre specificare, tuttavia, che il termine indagine non comprende, nel caso in esame, una volontà di analisi psicologiche dei personaggi; Sartre tralascia di proposito la sfera strettamente intima per fissare l’attenzione su gesti in superficie. Le ragioni dello scarso interesse nei confronti dell’approfondimento interiore sono da ravvisare nello scetticismo del filosofo per la diffusa accezione attribuita all’inconscio e, più in generale, nel radicalismo surrealista di cui era fermo oppositore. Focalizzato più su un approccio esistenziale alla psicoanalisi, Sartre centra l’attenzione sulle dinamiche comportamentali dei soggetti. A tal proposito è interessante notare come i racconti de Il muro presentino, in negativo, i temi cari ai surrealisti (erotismo e follia, per citarne alcuni). Secondo tale lettura, la figura di Erostrato può addirittura essere interpretata come corrispettiva caricatura del Breton teorico de L’amour fou, romanzo del 1937. Non solo è da escludere l’introspezione, ma anche un intento politico da parte di Sartre; negli anni in cui si dedica a Il muro infatti, l’autore è quasi esclusivamente concentrato su tematiche nichiliste che lo vedranno concepire, ancora nel 1945, un dramma teatrale come A porte chiuse, di cui la celebre frase «l’enfer, c’est les autres». La dimensione claustrofobica, affine in A porte chiuse, si conferma l’espediente prediletto da Sartre; il muro è una costante, elemento che si interpone nelle vite miserabili con la sua aspra materialità facendosi metafora tragica dell’immobilità umana. Il culto dell’individuo, che dal Rinascimento ha indirizzato verso una coscienza sempre più autoreferenziale, ha paradossalmente inciso sulla disgregazione sociale generando una serie di individui non comunicanti. Questo tipo di dinamica antisociale è tra i fondamenti delle vicende de Il muro. Nello specifico, il racconto La camera può essere un utile caso di riflessione. Le quattro mura in cui Eva si reclude con il marito Pietro e in cui tenta disperatamente di amalgamarsi alla sua follia delirante, non l’accoglieranno mai del tutto: ella non appartiene alla camera in cui Pietro vaneggia così come non può tornare al mondo esterno in cui i genitori cercano di attirarla, invano. Un gioco perverso di osmosi morbosa e miseramente fallita che – parlando per suggestione – fa di Eva un’antenata di Alma, la Liv Ullmann del film di Ingmar Bergman L’ora del lupo (Svezia, 1968), con la quale condivide non pochi aspetti psicologici. Non ci sono fonti che attestano un volontario rimando di Bergman all’opera di Sartre ma è noto che la poetica del regista sia debitrice, per non dire pregna, dell’esistenzialismo sartriano. L’aggettivo che Sartre attribuisce alle storie, piccole, ne chiarifica profondamente il carattere irrisorio: la gratuità assolutamente disturbante delle dinamiche quotidiane, l’assenza di un fine, si fa insostenibile; gli uomini, disperati Sisifo, restano bloccati in tentativi mancati, nudi e frustrati di fronte a irrealizzabili proiezioni di riscatto.

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