GUIDA CRITICA ALLA 56. BIENNALE DI VENEZIA (ALL THE WORLD’S FUTURES)

di Rossana Macaluso

È interessante la lettura dell’intervento del Presidente della Biennale di Venezia, Paolo Baratta, che definisce «Curigier, Gioni, Enwezor, quasi una trilogia: tre capitoli di una ricerca della Biennale di Venezia sui riferimenti utili per formulare giudizi estetici sull’arte contemporanea, questione critica dopo la fine delle avanguardie e dell’arte non arte»[1]. Ci pensa Okwui Enwezor a creare uno stacco critico netto rispetto al passato. La 56. Esposizione Internazionale d’Arte è una Biennale impegnata. La dichiarazione di intenti è esplicitata dal punto di vista istituzionale ancora prima che espositivo: «Sono stati chiamati 136 artisti dei quali 89 presenti per la prima volta, provenienti da 53 paesi, molti da varie aree geografiche che ci ostiniamo a chiamare periferiche»[2]. Il rischio, nell’uso dell’aggettivo periferiche, è di rimandare ad immaginari più che altro esotici, che puntualmente Enwezor tradisce in tutti i modi in cui è possibile farlo. Non è un caso che il Padiglione centrale dei Giardini si apra con Il Muro del Pianto di Fabio Mauri[3], omaggio alla codificata (termine che pare andare molto di moda) arte italiana, ma sottilmente in riferimento ad un preciso artista che ha lavorato non sulla politica ma sulla coscienza. «Ho iniziato dalla mia biografia. C’era stato il fascismo, la guerra, lo sterminio degli ebrei. Dovevo ricominciare da lì, analizzare i disastri, il freddo, la fame, la paura, i bombardamenti. Impresso nella memoria trovai un raduno, i Ludi Juveniles a Firenze, nei giardini di Boboli. Ripensando a quelle giornate riflettevo sull’aspetto politico e storico del destino, a come la storia incide sulla vicenda dei singoli. Sembra un incidente, ma è la sostanza di una vita[4]

Ricominciare dunque dalla forza concettuale della storia e sulla potenza traspositiva che l’arte contemporanea ha nel momento in cui sceglie una narrazione attraverso la presa di posizione. All the World’s Futures. La prospettiva del futuro è affidata alla coscienza del passato. Ancora nel Padiglione centrale dei Giardini, All the World’s Futures presenta ARENA, uno spazio attivo dedicato ad una programmazione interdisciplinare dal vivo. Il cuore di questo programma è la lettura dal vivo dei tre volumi di Das Kapital di Karl Marx, diretta dall’artista e filmaker inglese Isaac Julien. La lettura dal vivo sarà un appuntamento che si svolge senza soluzione di continuità per tutti i mesi di apertura della Biennale

La scelta curatoriale ha un taglio documentativo e di approfondimento antropologico ed etnografico. Oscar Murillo appende sulla facciata del Padiglione Centrale dei Giardini tele che sovvertono la maestosità della facciata neoclassica, ma ancora più interessante appare l’opera Frequencies (an archive, yet possibilities), (2013-in corso), che è consistita nel coprire in maniera temporanea de banchi di scuola di studenti di diverse zone del mondo con dei teli per registrare le loro attività attraverso i segni e disegni, così evidentemente differenti da zona a zona per contenuti e messaggi. Christian Boltanski presenta per il Padiglione Centrale un film da molti definito oppressivo dal titolo l’Homme qui tousse, (1969) e per l’Arsenale un evocativo monumento alla memoria Animates, (2014) composto da una veduta di campane di piccole dimensioni che oscillano in lunghi steli metallici come gli altari dedicati ai defunti collocati in alcune zone del Cile. Con un atteggiamento rivolto alle problematiche globali, è presente Robert Smithson con l’earth-work, Dead Tree (1969/2015) in cui la land art trova una distillata sintesi nella scultura solo ad un prima superficiale battuta indifferente alle problematiche sociali. L’installazione di Tiravanija, Demonstration Drawings, (2015), affida ad alcuni artisti thailandesi la traduzione in disegni di fotografie giornalistiche che immortalano ribellioni nei confronti del potere istituzionale (pubblicati sull’International Herald Tribune) rielaborando dunque un’estetica alla quale siamo ormai anestetizzati. Al Padiglione centrale sono presenti Walker Evans con la famosa serie fotografica di lavoratori immortalati nel loro contesto quotidiano nelle campagne dell’America negli anni della Grande Depressione e Andreas Gursky con May Day IV, (2000/2004), con le riconoscibili fotografie di grande formato che per la Biennale hanno per oggetto emblematici centri dell’economia globale come Singapore, Hong Kong e Kuwait. Il tema del lavoro è sviluppato da Jeremy Deller attraverso la raccolta e presentazione di diversi oggetti che rappresentano vita quotidiana e protesta dei lavoratori, e da Sergej Ėjzenštejn di cui viene trasmesso Sciopero! (1925), che documenta la soppressione da parte della polizia zarista di uno sciopero dei lavoratori di una fabbrica di inizio ‘900. Vale la pena soffermarsi a visionare l’esteticamente accattivante film a tre canali dell’artista John Akomfrah, dal titolo Vertigo Sea, (2015) il cui il montaggio alterna materiale d’archivio con filmati contemporanei, il tutto caratterizzato da emotivamente frustanti rimandi ad immaginari coloniali e al mancato rispetto della natura e dell’uomo.

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Hiwa K
The Bell, 2015
Installazione con video a due canali, suono, colore, scultura. Dimensioni variabili.
56. Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia, All the World’s Futures
56th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia, All the World’s Futures
Photo by Alessandra Chemollo
Courtesy by la Biennale di Venezia

Continuando il percorso curatoriale, il principio dell’Arsenale è affidato a Bruce Nauman, che apre la strada ad una controversa riflessione sulla questione del restauro e quindi conservazione delle tecnologie in uso nell’arte contemporanea. Le opere esposte sono realizzate da una serie di tubi di neon, comunemente utilizzati negli anni ‘70. E’ l’artista Melvin Edwards a dare seguito, attraverso numerose sculture saldate in acciaio, alle principali tematiche affrontate nelle Corderie, ovvero le diaspore (non solo africane), le controversie raziali e le problematiche post-coloniali, le rivendicazioni dei diritti civili. Il massacro della guerra civile in Sierra Leone è affrontata da Abu Bakarr Mansaray nell’opera THE MASSAKA, (1997) attraverso una serie di disegni che riproducono forme meccanizzate di fantasiose armi che vengono inserite accanto a Cannone Semovente (1965) di Pino Pascali, un monumentale cannone, ma paradossalmente in realtà un giocattolo in quanto privato della sua funzione, non può sparare. Molto interessante risulta il linguaggio figurativo affettivo[5] dell’artista Nidhal Chamekh che, con l’opera De quoi revenet les martyrs 2, (2012), criticizza il concetto di monumento sociale pubblico come espressione di potere e di narrazione controllata. Chiude il cerchio un interessante lavoro, a mio avviso il più interessante, di Hiwa K, The Bell, (2015) in cui lo spettatore può ammirare una campana realizzata dalla fusione di residui bellici che l’artista ha cercato e trovato sul suolo iracheno facendo parallelamente una ricerca per identificare da quale paese provenisse ciascuna arma trovata, sottolineando la responsabilità che molti Stati hanno rispetto alla guerra in Iraq.

Partecipazioni nazionali (Giardini). Molto interessante il Padiglione del Belgio che riflette sulla storia dello stesso padiglione nel contesto della Biennale, sottolineando come essa abbia origine nelle Esposizioni Universali e Coloniali. Il Padiglione dell’Australia è affidato all’artista Fiona Hall che sceglie di esporre numerosi oggetti: una Wunderkammer nella quale lo spettatore entra in uno stato di continua ricerca di nuove possibilità di senso attraverso le connessioni tra cose storiche e attuali. Il Padiglione della Russia permette ancora una volta grandi riflessioni sulla propria cultura e storia a partire del restyling del prospetto del padiglione che torna alle origini con un intenso verde. Il lavoro dell’artista Irina Nakhova destabilizza e crea un viaggio nell’arte russa del XX secolo, attraverso una grande ricerca estetica e filosofica. Il Padiglione del Giappone raccoglie grandi consensi con l’opera di forte effetto scenografico dell’artista Chiharu Shiota dal titolo The Key in the Hand, (2015). L’installazione che riempie l’intero spazio del padiglione, presenta numerose chiavi che l’artista ha in precedenza chiesto via internet a volontari donatori come metafora di un oggetto transizionale verso ciò che più si desidera. Canadissimo segue la moda di riprodurre fette di realtà riproponendo un classico market di cui sono piene le grandi città dello Stato, elementare metafora dell’iper produttività contemporanea. Lo stesso approccio è visibile nel Padiglione della Grecia con l’installazione di Maria Papadimitriou che trasferisce in Biennale un negozio di pellami e cuoio e negli spazi dell’Arsenale nel Padiglione della Lettonia nel quale viene ricostruito uno dei numerosi garage presenti nella periferia di alcune città trasformate in residenze o piccoli laboratori. Alle Partecipazioni nazionali in città va il grande merito di rendere fruibili al pubblico, come spesso è già accaduto, numerosi palazzi storici altrimenti chiusi o difficilmente visitabili. Da non perdere il Padiglione del Portogallo presso Palazzo Loredan affidato all’artista concettuale Joao Louro che, attraverso non poca ironia, sviluppa un lavoro semantico tra installazioni visive e fotografiche. Il Padiglione Islandese merita la popolarità che ha ricevuto. L’artista Christoph Büchel affitta l’inutilizzata e privata ma ancora consacrata Chiesa Santa Maria della Misericordia di Venezia e la trasforma in una perfetta moschea. Lo spazio espositivo diviene immediatamente luogo di culto.La gestione della moschea viene affidata alla comunità musulmana veneziana che raccoglie circa venti mila fedeli, che abitualmente praticano il culto in un capannone nei pressi di Marghera. A Palazzo Malipiero troviamo il Padiglione del Montenegro, che grazie alla memoria dell’artista Aleksandar Duravcevic, permette allo spettatore di respirare in maniera intelligente aria montenegrina, nella sua dimensione più controversa del passato ma in una prospettiva di futura apertura.

 

[1] La Biennale di Venezia. 56. Esposizione Internazionale d’Arte. Intervento di Paolo Baratta. Presidente della Biennale di Venezia.
[2] ibidem.
[3] Fabio Mauri, Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993.
[4] Senza Paura del buio. Intervista realizzata da Stefano Chiodi a Fabio Mauri, Flash Art n. 277 agosto-settempre 09.
[5] Questa definizione è data dal testo presente nella guida alla Biennale che mi ha permesso di recuperare numerose informazioni rispetto alle opere in mostra. Per ulteriori approfondimenti si consiglia la lettura di: 56. Esposizione Internazionale d’Arte. All the World’s Futures, Marsilio Editori, Venezia, maggio 2015.

In copertina:
Isaac Julien
DAS CAPITAL, Oratorio
Padiglione Centrale – Central Pavilion
ARENA
56. Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia, All the World’s Futures
56th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia, All the World’s Futures
Photo by Andrea Avezzù
Courtesy: la Biennale di Venezia

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