BADLANDS

Badlands
Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni
Alessandro Portelli,
Donzelli Editore, 2015

Bruce Springsteen era figlio di un operaio, o per meglio dire della fabbrica: vedeva il padre alzarsi presto e tornare tardi, la sera, ogni giorno, tutti i giorni, secondo lo stesso ritmo del suo lavoro. Ed è proprio il lavoro il tema portante di Badlands: analizzando l’impossibilità dell’avverarsi del cosiddetto ‘sogno americano’ – impossibilità che riguarda almeno tre generazioni -, quello cioè del riscatto sociale attraverso il lavoro e lo studio che un tempo consentiva al figlio dell’operaio o del contadino una certa mobilità sociale, Alessandro Portelli si rende conto di come Springsteen sia l’eccezione, l’uno su un milione che invece ce l’ha fatta. Il Boss si è guadagnato la sua vita, che consisteva l’imbracciare una chitarra, ma il mondo che vedeva e che ha vissuto attraverso la sua famiglia lo ha raccontato e suonato, e continua a farlo tuttora, con una perfetta distanza che forse si è rivelata essere l’ingrediente essenziale per mantenere quel realismo che si avverte così forte nei suoi testi. Album dopo album, Portelli riesce a carpire le paure (di rimanere incastrare nella stessa vita di genitori e nonni) così come i simboli di libertà e solitudine che Springsteen viveva e descriveva al contempo, passando dalla canzone popolare a quella puramente narrativa, fino a far divenire i suoi testi delle ‘tragedie’ nel senso classico del termine, ossia racconti in cui i personaggi decidono di imbracciare le armi per dare il via a quelle rivolte individuali contro un destino ineluttabile. Con Wrecking Ball, arriva alla rabbia più pura: si tratta del disco della grande crisi del terzo millennio, quella che ha distrutto le città ed i rapporti sociali senza però le bombe o i cannoni, ma solo con l’affermazione della speculazione finanziaria che ha spodestato qualsiasi ideale di democrazia ancora esistente. Ma non pensiamo che questo possa avere risvolti rivoluzionari: ad essere rivoluzionario erano Dylan ed Elvis, non lui. Lui si vede come un meccanico, che se poteva concludere qualcosa lo avrebbe fatto nel lungo periodo, non in un momento di esplosione di energia. Quello che sul palco con la E Street Band è un lavoro, qualcosa che si fa tutti i giorni e per molto tempo (anche se trova sconcertante essere pagato un sacco di soldi per fare quello che gli viene naturale), ed è un lavoro autentico perché si vede il sudore: un suo concerto è una performance faticosa per chi lo fa ma anche per chi assiste, e dopo quattro ore ininterrotte, anche se stai per svenire non riesci a chiamartene fuori, perché come scrive Portelli stesso: “come faccio ad andarmene se questo non smette”?

Vera Viselli

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