STALKER // L’ATTRAVERSAMENTO DELL’INCERTEZZA

intervista di Francesca Cocco


Un’intervista realizzata nel 2008 da Francesca Cocco, oggi docente di Grafica presso il Liceo artistico di Latina, nell’ambito di uno studio sulle pratiche artistiche urbane che andò a confluire nella sua tesi per l’Accademia dell Belle Arti di Roma, intitolata significativamente L’arte nei territori del possibile.
Un dialogo aperto con Francesco Careri e Lorenzo Romito del collettivo Stalker_No Working che racconta le origini del progetto, dalla sua formazione spontanea nell’ambito del movimento Pantera, dal primo grande evento urbano e partecipativo nell’Ararat nell’ex mattatoio del Testaccio all’esperienza a Corviale, passando per la fase del cosiddetto osservatorio nomade. Un incontro visto in retrospettiva, avvenuto alle soglie di un’era che stava per finire e non ne avevamo ancora percezione, quando la televisione era ancora la principale interfaccia mediatica, un attimo prima del sopravvento che avrebbero preso i social media su scala globale, cambiando per sempre ogni modo di comunicazione.

Potete raccontarci che cos’è Stalker?

Francesco Careri: Che cos’è Stalker è una delle domande più difficili a cui rispondere… Nel 1990, quando abbiamo iniziato a lavorare insieme con la Pantera, era un laboratorio di arte urbana, così lo avevamo chiamato. Da quel laboratorio iniziale si è costruita intorno a noi una rete di persone, tra artisti e non, che ha lavorato con noi, si è creata una rete interdisciplinare intorno a noi che si chiama osservatorio nomade. Come nasce Stalker? Nasce appunto dalla Pantera, dal movimento degli studenti del 90, quello è stato il momento in cui ci siamo conosciuti e abbiamo condiviso una visione politica e artistica del mondo, della città, abbiamo messo in crisi quello che ci dicevano i nostri professori alla facoltà di architettura ossia la semplificazione della città fatta di assi, tessuti, monumenti, mura, secondo cui tutto quello che stava fuori era un cancro che aggrediva l’ordine perfetto della città. A noi questo cancro ci sembrava molto più interessante di quell’ordine che ci raccontavano. Da lì è nata la scintilla che ha fatto guardare oltre, per andare a vedere cosa succedeva lì, dato che non ce lo diceva nessuno. Volevamo fondare questa conoscenza sull’esperienza, sull’esperire lo spazio urbano. Così c’è stato un avvicinamento alle arti contemporanee: il filo rosso che congiunge dada, lettristi e situazionisti alla land art, due interessi che avevamo tra di noi, nella volontà di non fare oggetti ma di fare delle azioni territoriali.

Lorenzo Romito: Quello che ci interessa è agire e vederci agire nella trasformazione dei processi del reale. In questo senso è sicuramente una pratica politica. La necessità di comunicare questo agire porta ad individuare dei momenti di comunicazione che forse si avvicina di più allo spazio consolidato delle pratiche artistiche. Non abbiamo mai definito l’ambito di pertinenza ma neanche l’entità di questa realtà stalker. E’ sempre stata un soggetto sfuggevole perché nella determinazione noi vedevamo una negazione della libertà di agire.

 

Vi va di raccontarci dell’esperienza a Campo Boario, a Roma al Testaccio?

Francesco Careri: Il primo incontro vero lo abbiamo fatto al Campo Boario quando abbiamo occupato questa palazzina Hararat, al Mattatoio al Testaccio, assieme ai curdi. C’era la comunità dei calderasha che abitava lì, che è una comunità italiana di zingari veramente nomadi (gli altri sono tutti stanziali e nomadizzati dalle nostre leggi e dalla creazione dei campi nomadi); loro effettivamente vivono in roulotte e in caravan, gli sono state proposte anche delle case popolari ma loro le hanno rifiutate perché il loro modo di vivere questo mondo è su ruote. La cosa bella di quel campo è che non c’erano recinsioni, c’era un grande recinto, che è quello del mattatoio, dentro cui abitavano varie comunità. Quello spazio ospitava, oltre ai rom calderasha, una comunità di una ventina di senegalesi, la comunità dei cavallari con le carrozzelle di Testaccio, c’erano anche altri immigrati da tutto il mondo, magrebini, algerini, c’era il villaggio globale, una new babilon.

Lorenzo Romito: a noi interessava proprio la promiscuità di quel territorio, l’inintelligibilità, cioè il fatto che non abbiamo gli strumenti per comprendere questo grado di spontaneità, questo grado di complessità. E’ importante calarsi, disporsi ad essere trasformati dalla realtà più che impegnarsi trasformarla. E comunque in questo processo di ascolto reciproco, cercare di restituire un’esperienza di attraversamento di questa incertezza, che possa fare da volano perché questo territorio possa essere affrontato, questo vale per i territori abbandonati, per il mondo dei rifugiati, per quello dei rom.

Francesco Careri: Tutto è scattato quando abbiamo fatto il pranzo boario, una tavolata circolare in cui abbiamo fatto un pranzo gitano particolare, rom-curdo-giapponese: era la prima volta che i rom mangiavano alghe cucinate da una giapponese e che i curdi mangiavano il gulash fatto dai rom, è stata la prima operazione artistica fatta insieme ai rom.

Lorenzo Romito: Si stava delineando un percorso possibile innovativo. Mentre accadeva questa sperimentazione transculturale di linguaggi artistici, di ricerca, di commistione, di inserimento dell’università, di inserimento degli artisti, il Comune di Roma arriva a determinazione e che fa? Isola le scatole in cui può riconoscere quello che già riconosce: lo spazio dell’arte, lo spazio dell’università, il mercato dell’altra economia. Ma nel far questo non riesce a dare spazio e far emergere e vitalizzare i processi spontanei. Non c’è una cultura della vita.

Ararat, Ex Mattatoio, Testaccio, Roma. Ph. Francesca Cocco, 2008

 

Cosa potete raccontarci dell’osservatorio nomade di Corviale? E’ stato sicuramente un tentativo di autogestione ben riuscito.

Lorenzo Romito: L’idea dell’osservatorio nomade era di cercare un’idea possibilitstica rispetto alle dinamiche di sistema, interrogarsi su questa pratica informale – così difficile da definire, da modellizzare, difficile da mettere dentro un formulario universitario o in un progetto dell’Unione europe – e chiedersi come può accedere alle pratiche consolidate di trasformazione della realtà come l’urbanistica, l’architettura, l’antropologia, la politica, i media? Per fare questo c’è bisogno di traduttori, di qualcuno che guardasse in maniera partecipata Stalker e che fosse consapevole e pratico dei linguaggi istituzionali e fosse quindi in grado di costruire un ponte. Credo che in Corviale la fiducia nelle relazioni istituzionali sia stato il limite dell’osservatorio nomade. Noi siamo andati a Corviale, attraverso la Fondazione Olivetti abbiamo ottenuto un piccolo finanziamento pubblico comunale per operare sul territorio. E’ andato tutto bene finché si trattava di agire artisticamente, finché era uno strumento che seguiva le vecchie dinamiche di sostegno all’azione politica-filantropica del Comune di Roma su Corviale. Quando questa azione ha iniziato a toccare i gangli della convivenza, ha iniziato ad azionare dinamiche di relazione dal basso, quindi a far nascere i laboratori condominiali, a creare delle investigazioni da parte degli abitanti, la televisione di quartiere, un’attenzione sui problemi veri del quartiere, sui malfunzionamenti, su certe realtà, quando insomma Corviale si è fatta protagonista di una progettazione condivisa – insieme agli abitanti del quarto piano occupato – che era economica, partecipata ed era ispirata alle pratiche degli abitanti stessi, a quel punto è diventata troppo politica e intaccava il sistema, il potere. Ci siamo accorti a Corviale che in qualche modo la separazione politica in destra e sinistra era assolutamente strumentale per creare una polarità che impedisse il ritrovarsi della gente, il superare le differenze e confrontarsi con i propri bisogni.

Corviale, Roma. Ph. Francesca Cocco, 2008

Questi territori del possibile vanno a scontrarsi, in qualche modo, contro i confini della spettacolarizzazione?

Lorenzo Romito: Oggi c’è solo un principio di speculazione, si vive di rendita sull’espoliazione della realtà, lo fanno tutti, a tutte le scale. Non c’è più una capacità di comunicazione sociale, un luogo fisico di condivisione, non c’è più una piazza, la comunicazione avviene su modelli beoti imposti dalla televisione. Noi siamo scissi tra un’esperienza del reale che è l’esperienza metropolitana e un’esperienza del virtuale che è ancora soprattutto quella televisiva. Che cos’è che manca ancora? Manca il far sì che questo agire nel reale produca una reale economia, che sottragga l’artista che vuole diventare indipendente, politico e fautore di una trasformazione sociale dalla dipendenza del mecenate, del sistema dell’arte, del potere. Le modalità con cui tutto questo viene fatto sappiamo ch esono inaccettabili, ma in qualche modo non sappiamo sottrarci. Come uscirne? Probabilmente questo sistema non è più riformabile. Il lavoro di Stalker è davanti ad una fase in cui dice “Guardate abbiamo indicato dei percorsi praticati nei territori del possibile, abbia cercato di frequentare degli spazi per andare incontro alla diffusione nella gente della consapevolezza della possibile trasformazione del proprio territorio, di se stessi, del rapporto con gli altri“. Oggi quel tipo di spazi non ci sono più, i territori attuali sono campi nomadi, spazi di segregazione. Bisognerebbe iniziare a considerare che il sistema non è più riformabile, il territorio non è più quello della possibilità, è diventato il territorio dell’inaccettabile e ha bisogno di strategie diverse. E forse l’unica risposta è quella insurrezionale.

In copertina: Ararat, Ex Mattatoio, Testaccio. Foto: Francesca Cocco, 2008

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