RELEVO: TO BE BOTH //

Recensione di Francesco Rosetti

Di cosa parliamo quando affrontiamo la questione del corpo, soprattutto di cosa parliamo quando  lo snodo è quello del corpo sessuato? La risposta non è affatto scontata, affonda le sue radici nei legami inestricabili tra elemento biologico, organico, tutt’altro che binario e tendente alla confusione, e l’ elemento culturale, bisognoso di forme via via più precisate, definitorie, tassonomiche. Questo almeno nell’Occidente greco-romano e poi giudaico-cristiano  (in entrambi i casi uso i termini a semplice livello esemplificativo, essendo la stessa nozione di Occidente intrinsecamente plurale), dove la nozione stessa di cultura si determina nella dicotomia feroce e mai riconciliata tra un fondo oscuro, magmatico, irriducibile ad ogni sguardo metafisico, dalla chora platonica all’inconscio teorizzato dalla psicoanalisi novecentesca, e la razionalità del logos, dell’essere, e poi del linguaggio (e qui bisognerebbe almeno citare il Derrida, teorizzatore del fallogocentrismo come base della metafisica occidentale).  Ovviamente i rapporti natura-cultura non sono riducibili a questa semplice assialità, ma di certo si crea una tensione tra la volontà di armonia formale, di uno sguardo razionale e luminoso, e l’informe del desiderio e della differenza che, soprattutto nella temperie poststrutturalista, nega qualsiasi armonia prestabilita, e, in alcuni casi (l’ultimo Deleuze), perfino la nozione di mondo, intesa come insieme sferico, senza differenze e riducibile ad unità.

La riflessione sul gender, negli ultimi decenni, a partire dal pensiero femminista della seconda metà del secolo, fino alla speculazione di Judith Butler o di Donna Haraway, ha ampliato lo spettro di questo dibattito filosofico , appunto, al corpo, visto come luogo del non naturale:  l’organico diviene campo di un irriducibile conflitto non riassumibile in una logica binaria, soprattutto quella uomo-donna. E nell’Occidente, il campo di battaglia di questo conflitto, prima ancora che la filosofia, è il mito, creatore di infinite tessiture di narrazioni e, soprattutto, di archetipi, anche visivi.
E arriviamo così alla mostra To be both, curata da Nicola Nitido, che proprio sull’interazione tra mito e immagine, in questo caso immagine pittorica, fonda il suo discorso tra le opere esposte. Il tema centrale, la figura che ci si propone di mettere a fuoco, è quello dell’ermafrodito, figura di completezza, forse, di unità immaginaria uomo-donna, ma anche di continuo e quasi spontaneo divenire del desiderio.
L’ermafrodito sfida la nozione stessa di forma, o almeno la dimensione più statica di questo complessissimo concetto. Partiamo dunque dal mito e poi approcciamoci alle nove opere esposte degli artisti Elisa Filomena, Giorgio Celin, Giulio Catelli.
Ermafrodito nel mito – soprattutto nelle Metamorfosi di Ovidio, dove viene compiutamente sviluppato  l’archetipo greco-romano – è figlio di Afrodite ed Ermes e, per la sua bellezza, suscita il desiderio della ninfa Salmace che invoca gli dei per potersi unire definitivamente a lui, venendo esaudita. Da quel momento Ermafrodito diviene un essere metà uomo e metà donna, potendo unire gli attributi, anche sessuali, di entrambi i generi. Una figura unica nel pantheon dei mitologemi occidentali, che unisce in sé le qualità dell’Eros (Afrodite), ma anche del linguaggio e del logos (Ermes, appunto). Una simile sfida alle convenzioni non poteva non interessare uno dei luoghi decisivi per la speculazione formale occidentale, ovvero l’immagine, con tutto il suo portato razionalistico oculocentrico, contrapposto all’evocazione poetica più lirica del gesto pittorico. Ci troviamo di fronte al più antico conflitto alla base della cultura vsiva prima greco-romana, poi cristiana, quello tra disegno e colore, linea e tocco pittorico. Se, infatti, l’occhio è il senso della distanza, nella sua volontà quasi disumana di classificazione degli enti (si pensi alla lenticolarità di van Eyck, ma anche ad alcune qualità del mezzo fotografico), nella pittura, quindi nell’evocazione figurativa di un’immagine, esso incontra il gesto corporeo del dipingere, della pennellata, dell’azione e si potrebbe affermare, esagerando ma non troppo, che già in ogni tradizione pittorica specificamente figurativa si schiuda in nuce l’azione pittorica di Pollock o degli artisti del color field painting.
Dunque, il cuore di una mostra sull’Ermafrodito, e il brillante approccio di Nitido lo conferma, non può che situarsi all’incrocio della dinamica tra pittura come descrizione e pittura come azione, anche se i tre artisti esposti, Filomena, Catelli e Celin, non sentono minimamente il bisogno di rinunciare alla figurazione, anzi. Viene tematizzato il fatto che l’Occidente pittorico non sia mai arretrato di fronte alla sfida alle convenzioni che il mito di Ermafrodito pone su corpo e desiderio, ma l’abbia anzi rilanciata per ampliare a dismisura il dominio del visibile, rispetto all’ irriducibilità visiva del desiderio. E siamo dunque all’incrocio di un’altra distinzione fondamentale della speculazione pittorica europea: quella tra visivo e visione. Sia Elisa Filomena, sia Giorgio Celin, sia Giulio Catelli, pienamente figli del novecento in cui nascono anche se proiettati decisamente nelle sfide visuali del secolo successivo, trascendono il dato puramente visivo in visione, al confine tra immagine descrittiva e pathosformeln (il riferimento ad Aby Warburg, ed alla sua specifica idea di montaggio tra immagini distanti nello spazio e nel tempo, viene reso esplicito dallo stesso curatore, Nicola Nitido).
Ermafrodito è corpo singolare e nello stesso tempo luogo di metamorfosi continua, in questo contrapposto a Narciso, che invece è ossessionato dal non poter coincidere con la propria immagine ideale. Ovviamente se il luogo dell’ispirazione dei tre artisti in mostra è unitario e comune, poi le tre interpretazioni non possono che divergere, tessere una rete di relazioni senza coincidere.

Giulio Catelli, Ermafrodito nella stanzetta 2020, china e acquerello su carta 45×35 cm

Giulio Catelli, ad avviso di chi scrive, è il più vicino per sensibilità ai moduli quasi impressionistici della pittura romana, usa l’acquerello e arriva proprio al punto in cui la figura quasi si dissolve nella natura. La sua versione di Ermafrodito, titolo originale di uno dei suoi acquerelli, è immersa in un lussureggiante paesaggio accennato in delicate gradazioni di colore, il blu del cielo e dell’elemento acquatico e il verde della vegetazione. Il paesaggio ritorna in almeno due dei suoi tre acquerelli ( il terzo è ambientato in una stanza, che però è anche paesaggio interiore, luogo dell’anima); infatti la natura in Catelli non pare essere luogo di una feroce lacerazione, mantiene anche un elemento edenico, appena accennato però presente, in cui le differenze convivono, magari senza fondersi ma in coabitazione, che sospende almeno parzialmente il tempo. Si potrebbe pensare al mito inteso come nostalgia del grande paesaggismo seicentesco, armonia non prestabilita, come in Annibale Carracci e Lorrain, con in più il guizzo dell’istante visivo che quasi dissolve le forme in puro fluire di un de Pisis.

Elisa Filomena, Volteggio, acrilico su tela, cm 105×68, 2021

La ricerca di Elisa Filomena appare più definita nella ricerca di una certa rilevanza disegnativa, quasi ritrattistica, e allo stesso tempo sfrenata nella tensione alla dissoluzione liquida della pittura, come evidente negli sfondi dei suoi acrilici su tela, che quasi diventano fondali marini in cui la figura stessa appaia immersa. L’equilibrio lieve e precario di Catelli viene da lei declinato in maniera differente. Sicuramente alla base c’è una notevole qualità disegnativa, quasi statuaria, imponente, delle sue figure (basti pensare a opere come Volteggio e Annemarie, in cui il riferimento alla statuaria classica, sebbene sui generis, appare evidente). Ma appunto lo sfondo cromatico, neutro paesaggistico, penetra come puro colore dentro la griglia disegnativa della figura, anche in questo caso quasi a dissolverla. L’effetto non è tragico, ma appare latentemente più conflittuale di quello di Catelli. Con la natura il rapporto è di commistione e mutazione, ma anche sottile contrapposizione. Se il cromatismo dello sfondo naturale o neutro penetra nella figura e addirittura si pone, per uno strano effetto ottico, come schermo davanti al soggetto ritratto, allora la struttura disegnativa forte di Filomena viene radicalmente messa in discussione. Il corpo diventa luogo del conflitto, introversione del mito e della natura nel sé.

Giorgio Celin, Mammale no.1., olio su tela, 2019

Dei tre artisti Giorgio Celin sembra essere il più attratto dalla commistione tra temporalità latente del mito e la contemporaneità. Dei suoi tre lavori due sono olii su tavola e ritraggono, o almeno mostrano, figure evidentemente derivanti dal mondo queer con un apporto cromatico e disegnativo che – nell’asprezza ma anche levigatezza del contorno disegnativo – fanno pensare all’espressionismo di Die Brucke. Viene evocata in questi lavori la dimensione dell’osceno nell’ermafroditismo, sicuramente con intento provocatorio, ma anche lirico (basti pensare a Muerte a la Norma). La dinamica disegno-colore, lo ripetiamo, è aspra, a volte perfino dissonante e ricorda in alcuni momenti il cromatismo pop e timbrico di certi melodrammi cinematografici, da Sirk a Fassbinder ad Almodovar. Ma disegno non vuol dire tanto struttura quanto – come nell’inchiostro su carta Ermafrodito e Salmace – arabesco lineare che confonde i contorni di due corpi in un abbraccio delicato e tormentoso. La dimensione paesaggistica o contestuale è qui abolita, il mito sopravvive come resto nella dimensione tutta soggettiva delle figure monumentali.
Di sicuro tutti e tre gli artisti sono portati a rileggere il mito alla luce di una sensibilità per il desiderio e la sua fluidità tutta contemporanea, ma ciò che appare evidente a chi scrive è che in tutti e tre vi sia un tentativo anche di sganciarsi, seppure con dolore, dall’atemporalità del mito e, come evidente nella strategia di curatela di Nitido, reimmetterlo nella storia relazionale che si svolge e si sbroglia davanti ai nostri occhi.

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