PORNOGRAPHIC AND TRAGIC IN BLACK AND WHITE* // CONVERSAZIONE CON DANIELE FIACCO

di Jamila Campagna

Un’intervista che ha preso la forma di un epistolario, la conversazione con Daniele Fiacco, storico dell’arte e artista, cresciuto a Latina e trasferitosi a Praga negli ultimi anni; sembra essere la somma di tantissime parole dette nel corso degli anni, nel flusso di uno scambio intellettuale, artistico e, ancor prima, umano che ha la sua origine in un’amicizia nata nella nostra prima adolescenza.
I discorsi sono molteplici, si intersecano ed escono gli uni dagli altri; scuotendo il setaccio, quello che resta è che l’arte è soprattutto una questione di coraggio.

Ho visto che spesso ti hanno sospeso Facebook su segnalazione. Vogliamo iniziare parlando dell’utilizzo narrativo di un social media e della censura che lascia liberi di pubblicare materiale fascista ma poi sospende gli account che mostrano nudi a carattere estetico?

Mark Zuckerberg è un genio reazionario, ha ridato all’umanità l’antica arena in cui la pornografia del sangue altrui era lo spettacolo principale. La “sua” creatura è tutto un proliferare non solo di apologie del fascismo e simili, ma di animali torturati, omofobia, bambini morti, spazzatura mediatica spacciata per libera circolazione delle idee dagli adepti dell’imbecillità cliccante chiamati utenti. Il gioco è semplice: magnetizzare gli istinti più bassi dell’analfabeta funzionale, il quale, invece di elaborare il suo disagio e magari immetterlo trasformato nel mondo, forse anche per migliorarlo, lo vomita su Facebook e lì resta. Esibisce una vita che suppone gli appartenga. Si sente desiderato da un suo simile che posta selfie dall’altro lato dell’emisfero, rispecchiandogli l’ombelico con un “I like”. Crede che ci sia il mondo nel suo account, ma è un bar sport di profili che si parlano addosso. E in questo scenario dell’ego allo sbando, la battaglia morale di Facebook è contro il capezzolo della donna, le fotografie di Mapplethorpe, il glande di un pene visibile attraverso l’elastico delle mutande e le mie Biblioteche immaginarie, per le quali hanno bloccato il profilo di chi le ha “condivise”. Non c’è una moderna distinzione tra estetica, ovvero pensiero emozionale calato in una forma capace di interrogare chi guarda, e pornografia, che pure è produzione visiva di genere che rispetto. Essere censurati dietro segnalazione di anonimi, poi, con così tanta intransigenza controriformista, non ti ricorda nulla? Non vedo aperture né modernità in questo, è la solita vecchia, rintronata ipocrisia.

Sembra dunque che l’ultimo tabù rimasto sia quello della sessualità esibita. E sembra allo stesso tempo che lo spiattellamento della spazzatura mediatica serva solo a rendere sempre più indifferenti. Deturpazione e coercizione dei corpi e del pensiero, disprezzo del diverso – come lo chiamano – ovvero omosessuali, donne e stranieri, sembrano, alla fine, solo un espediente per mettere da parte l’idea della morte, mentre la pulsione carnale fa orrore nel ricordare la vita.
Eros e Thanatos è un topos chiave nella dimensione dell’arte e si può dire che ce ne sia parecchio anche nei tuoi lavori. La mia impressione è che tu voglia soffermarti soprattutto sull’associazione tra la morte e l’amore distruttivo che è comunemente chiamato guerra.

La sessualità esibita è tabù solo per Facebook e simili, che permettono a dei perfetti imbecilli di far censurare qualcuno. Andrebbero rispediti tutti sulle ginocchia di una maestrina che li frusti coi rami di salice, se non negli uteri delle madri, affinché preferiscano un ditalino al concepirli abortiti come sono. Io, poi, non so che cosa sia la sessualità, da anni sogno di essere vecchio, dichiaro a chi mi chiede l’età cento anni come minimo. Non avere ormoni che premono, spingendoti verso la carne marcia di chi ti fa ancora sangue, deve essere molto bello. Nel mio lavoro non c’è alcun riferimento didascalico alla guerra, c’è semmai una lotta universale, anche nell’amore, qualcosa di implacabile, che rivedo in una mosca che si schianta contro i vetri di una finestra, come nella minaccia di una bomba in metro.

La nostra generazione (in Italia) non ha avuto un’esperienza esistenziale della guerra, ne abbiamo avuto solo un’esperienza mediatica, penso soprattutto alla Guerra del Golfo e al conflitto nell’ex Jugoslavia. Al contempo siamo tutti nipoti di persone che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale. Gli studi sulla memoria epigenetica, di questi ultimi anni, ci stanno anche dicendo che portiamo scritto dentro di noi tutto quello che è accaduto ai nostri nonni. Pensi che tutto questo abbia a che fare l’iconografia della guerra nelle tue foto?

A Praga, dove vivo, ho conosciuto ragazzi siriani a cui sono state bombardate le proprietà di famiglia, altri che non sanno se i fratelli siano vivi o morti, altri ancora che beneficiano della tanto vituperata libertà europea senza dirlo a casa loro per paura delle ritorsioni (un po’ come in Italia). Le guerre altrove ci riguardano come camicie che ci si strappano addosso. Non c’è tempo per piangerci su, bisogna prevederle nel loro esserci prossime. E poi, che bello ricordare i nonni! Io ho avuto una bisnonna analfabeta straordinaria, una vera ribelle. Da bambino le mettevo sotto agli occhi le monografie di Van Gogh e lei si portava l’indice alla bocca. Si interrogava, sentiva l’opera. Guardando i suoi ritratti, mi diceva: “Sembrano cristiani veri”. Si può dire una cosa più intelligente su Van Gogh? No, non credo che nelle mie polaroid si sviluppi anche l’esperienza della guerra avuta dai miei nonni, ma grazie per avermelo evocato.

Tra gli esempi di cose implacabili, hai nominato la mosca che sbatte sul vetro. Per associazione mi è venuto in mente il sogno dello scarabeo d’oro riferito a Jung da una sua paziente e poi raccontato dallo stesso nel volume La sincronicità: la paziente riferiva il sogno dello scarabeo durante una seduta e proprio in quel momento un coleottero sbatté effettivamente contro il vetro della finestra. La tua serie Dead Birds Attack mi sembra tracciata proprio nel solco delle coincidenze significative, dove l’evento (l’incontro) casuale acquisisce un significato se posto in relazione con ciò che lo precede e lo segue.

Mi piacerebbe saper mettere in relazione una mia visione con un prima e con un poi. Quando ne ho una è come se il resto si annullasse. Mi ci vogliono anche anni per sviscerarla e dargli un corpo. Di una cosa sono certo, non vado a tentativi. Quando prendo in mano la polaroid o una matita, so esattamente cosa devo fare, anche quando apparentemente incappo in un errore. E non sono un fanatico del mezzo, lo stile è essudato della psiche, non nasce mai dal feticismo dello “strumento”, che per me è solo un tramite, un bisturi per aprire una superficie e mostrarne l’umore. Non prendo alla lettera la morte dei piccioni che fotografo per strada, nasce tutto da questo. Li fotografo solo quando mi pare che stiano dormendo o volando ancora.

Daniele Fiacco, Dead Birds Attack, dittico

Sei uno storico dell’arte che ha indagato a fondo la critica, oltre ad essere un artista visivo; trovo di estremo interesse i percorsi filologici che sono alla base di ogni tua opera. Vuoi parlarci in particolare della visita al Cimitero delle Fontanelle a Napoli? In the name of God, against God è una polaroid che porta l’eco di quel posto.

È forse la mia polaroid più politica. Al Cimitero delle Fontanelle, nel Rione Sanità, c’è un Cristo che se la batte con quello di Hans Holbein a Basilea. Un Cristo col volto deturpato in una nicchia buia, circondato da candele sciolte, annerite, come sangue secco su una cicatrice, nell’incuria che lì, miracolosamente, ha la sua più alta compiutezza estetica: è il Cristo sgarrupato, il Cristo dei poveri cristi. L’ho affiancato ad un altro, che invece è aristocratico, bello, famoso: il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino. Entrambi fanno da campo di battaglia ai soldatini che attaccano un cielo strappato. In televisione ho visto un uomo sparare con una mitragliatrice contro una città rasa al suolo, impugnava anche un dio che gli dava ragione? Ma dove lo vede Dio uno così? Distruggere ciò che Dio ha creato non significa forse distruggere Dio stesso? Me lo spiegasse, dato che a crederci è lui e non io. Nelle mie polaroid i soldatini rappresentano l’umanità tutta, gli faccio fare cose assurde, come sparare alle bolle di sapone, sprofondare nelle sabbie mobili di un cuore bianco, attaccare i piedi giganti di Gulliver. I soldatini sono uomini deboli, come chiunque impugni un’arma. Sgomitano nell’assurdo che vorrebbero spiegarsi, creano alibi, nemici immaginari. Nella mia iconografia sono l’antitesi dei teschi, i quali non rappresentano la consolazione di una morte che viene a fare giustizia rendendoci tutti uguali, ma l’ironia della vita che dice: “Hey, tu! Al netto di tutte le balle che ti racconti, non sei altro che questo”.

Daniele Fiacco, In the name of God, against God


Il cuore è un altro elemento molto presente nei tuoi lavori, un simbolo complesso che ha attraversato i secoli e le geografie del mondo, con un’accezione che è sempre un po’ ovunque la stessa, quella di pathos, inteso sia come dolore che passione. Di che cosa si tratta quando siamo davanti ai tuoi cuori?

Ho sempre detestato i cuori. Quando leggevo la parola cuore su un libro mi veniva voglia di lanciarlo dalla finestra. Il cuore come sede dell’emozione, contrapposto alla mente, come sede della ragione, mi è sempre sembrato un dualismo odioso. Come tutta la cultura del dualismo di derivazione cristiana, per me, era più un campo minato al quale sopravvivere che una verità assodata. Poi mi sono trasferito a Praga e tra martiri buttati giù dai ponti, studenti che si danno fuoco, violinisti torturati nelle torri, per contrasto ho iniziato a vedere cuori ovunque.
Il primo che ho fotografato era ispirato a un titolo di Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo. È il classico cuore rosso, pop, il più difficile da usare proprio perché scontato; l’ho scolpito nella plastilina con un’infibulazione al lato, l’ho trafitto con un coltellino e altri strumenti, l’ho buttato su una carta da pacchi sporca di pittura. Poi sono arrivati i cuori deformi, i cuori neri, un cuore liscio con dentro due teschi che si baciano, che presento qui come inedito: è il momento in cui credi che quel bacio non finirà mai, ma è attaccato alla catenella di un orologio poggiato su una piccola montagna di cuori più o meno logori. Uno a uno, il tempo se li riprende tutti. L’altro inedito è La matrice vuota del cuore: i tre teschi sono ammonticchiati come resti, sono lontani da un Eden o da una prigione, sono impotenti o forse, dato che uno si impone sugli altri, si stanno riorganizzano in una qualche società gerarchica. Che succede, quando del cuore resta solo il vuoto che si è creato al suo posto? Mi sarebbe tanto piaciuto parlarne con Dostojevskij. Ma certamente un cuore messo a nudo non è mai consolatorio, è antiretorico per eccellenza. E poi del mio cuore non me ne è mai importato nulla, il cuore dell’umanità è l’unico che conti.

Daniele Fiacco, La matrice vuota del cuore, 2018

In copertina: Daniele Fiacco, Gli amanti alla catena del tempo, 2018

* Suede, da Heroine, in Dog Man Star, 1994

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