DAL PIANALE ALL’INDICE. NUOVI LINGUAGGI DELLA POSTMODERNITÀ

di Giulia Pergola

Nell’era postmoderna i valori positivi caratteristici della modernità sono sostituiti da una presa di coscienza critica che arriva a decretare la distruzione del progetto moderno (di realizzazione dell’universalità)[1] per arrivare ad un sistematico scardinamento di tutte le certezze custodite fino al periodo precedente.
L’opera d’arte si nutre ora di una realtà più articolata e diversificata, e restituisce una lettura di sé che non è univoca e soprattutto non stabilizzata su un unico livello di esperienza (quella visiva). È richiesta una compartecipazione di elementi (visivo, verbale e concettuale) che solo se considerati nel loro insieme possono restituire l’esperienza nella sua completezza.

Sul fronte della critica d’arte Clement Greenberg si muove ancora sulla traiettoria formalista dello sviluppo storico inteso linearmente[2], Leo Steinberg individua invece un punto di rottura, di non ritorno, nell’opera di Robert Rauschenberg[3].
Secondo Greenberg la pittura modernista tenderebbe naturalmente verso una sempre maggiore purezza, e quindi ad un’autodefinizione; un’attitudine che si manifesta attraverso la coincidenza tra il campo dipinto ed il suo supporto materiale. In accordo con questa teoria, già dall’Impressionismo la bidimensionalità stava prendendo il sopravvento su una rappresentazione di tipo illusionistico. La natura fisica del supporto materiale su cui l’artista dipinge impone la sua presenza e automaticamente conferisce importanza alla pittura stessa. Al contrario, gli spazi tridimensionali dipinti nelle epoche precedenti avrebbero avuto il solo scopo di creare una continuità tra lo spazio reale e quello pittorico, come se l’arte dissimulasse se stessa[4].
In realtà è proprio il gioco illusionistico e la coscienza delle proprie abilità tecniche a determinare la presenza di una forte autoconsapevolezza formale anche nell’arte del passato.
Quando Jan van Eyck rinuncia all’utilizzo di metalli nei suoi dipinti per ricrearne l’effetto tramite il solo uso del pennello, ci troviamo di fronte ad una pittura che è pienamente conscia delle proprie capacità e che in virtù di questo può proclamare la propria autonomia[5]. Non è allora l’arte che tramite i suoi mezzi espressivi si ‘autocensura’, ma che proprio grazie ad essi può affermare la propria grandezza.
Per Steinberg proprio la piattezza della pittura moderna diviene la condizione essenziale per il radicale mutamento del suo contenuto. Egli attraverso il termine flatbed (il pianale secondo il lessico tipografico) intende descrivere materialmente e concettualmente il nuovo tipo di supporto utilizzato da alcuni artisti a partire dagli anni Sessanta. Non presupponendo più la creazione di uno spazio illusionistico, il pianale si configura come una superficie opaca, una sorta di bacheca su cui sono accumulate e registrate immagini, informazioni, dati. È come se il pianale evocasse in modo esplicito le relazioni tra le cose, come se la sua natura decostruisse la realtà fenomenologica per evidenziarne la struttura, spostando l’asse della rappresentazione dalla verticalità all’orizzontalità, nel passaggio dalla natura alla cultura.
Il cavalletto nell’atelier dell’artista scompare e il pavimento diviene luogo di produzione. Ne è un esempio la prima serie di dripping (1947) di Jackson Pollock. Nel suo Full Fathom Five si scorgono incrostazioni di pittura, chiodi, monete, sigarette, e altro materiale non pittorico depositato sulla superficie dell’opera, impresso e registrato su di essa.

Quindici anni dopo Andy Warhol leggeva quelle concrezioni e quegli innesti eterogenei nelle tele pollockiane in chiave scatologica. Nella serie Oxidations (1972) gli amici dell’artista sono chiamati ad urinare su delle tele ricoperte di pittura metallica, riproducendo, tramite l’ossidazione della superficie a contatto con l’acido urico, l’aspetto delle opere dell’Action Painting. La verticalità della dimensione fallica di cui Pollock si faceva ambasciatore viene ribaltata, resa ridicola, bassa, sporca[6]. Ma è Rauschenberg che nei primi anni Cinquanta compiva quella rottura, non prevista dall’evoluzione lineare greenberghiana[7], con il modo compositivo della tradizione a lui immediatamente precedente: le sue tele diventano superfici di lavoro su cui si accumulano fotografie e oggetti non artistici resi omogenei dalla qualità uniformante della pittura.
I suoi White Paintings sono campi vuoti sui quali si proiettano luci e ombre, proprio come accade in una fotografia senza l’ausilio dello strumento della fotocamera. Anche il compositore e amico dell’artista, John Cage ne rimase affascinato, tanto da paragonare queste opere proprio a delle «superfici fotografiche vergini in attesa di ricevere un’immagine»[8]. Nel ’49 il giovane artista è introdotto alla tecnica della cianografia[9] dalla futura moglie Susan Weil, e nello stesso anno aveva dato vita ad un’opera (oggi perduta) composta dalle orme dei suoi compagni di corso mentre oltrepassavano la porta della scuola all’Art Students League di New York.
Gli White Paintings, la cianografia, la tela calpestata, rimandano tutti al concetto di indice teorizzato da Charles Sanders Peirce all’inizio del Novecento, quel segno che ha una connessione diretta con il proprio referente. La polvere accumulata sulle tele bianche ricorda quella fotografata da Man Ray sui setacci de La mariée mise à nu par ses célibataires, même (Le Grand Verre) di Marcel Duchamp; foto che prenderà appunto il titolo di Elévage de Poussière. E cos’è la polvere se non «una delle iscrizioni del tempo; […] semiologicamente è un indice, come la fotografia, ma legato alla durata»[10]. La fotografia quindi nel suo stretto legame con la realtà diviene una traccia anch’essa (un indice) del mondo in cui viviamo.
Si assiste quindi al passaggio da un’arte intesa unicamente dal punto di vista simbolico o iconico, ad un’arte che fa della presenza fisica, della traccia, la sua condizione essenziale[11].
In questo senso è esplicativo il caso di Ed Ruscha e della sua serie Thirtyfour parking lots (1967) dove trentaquattro parcheggi rigorosamente vuoti sono stati fotografati da un elicottero. La veduta aerea permette di cogliere le macchie di olio lasciate dalle automobili che un tempo occupavano il parcheggio. Esse sono contemporaneamente l’indice, la traccia del passaggio dell’uomo e di conseguenza dello scorrere del tempo, ma sono anche lo sporco, l’informe, l’entropia. La serie dei parcheggi di Ruscha non solo evidenzia un processo indicale sdoppiato, in quanto sia la foto in sé che l’oggetto rappresentato si configurano come indici, ma prende in considerazione anche quel concetto di informe e di entropia che spesso ritorna nelle espressioni artistiche della postmodernità.

Caratteristiche che forse un critico come Greenberg tenderebbe ad associare ad un preoccupante «abbassamento della qualità»[12] artistica, ma che invece sono causa e allo stesso tempo effetto di una società che sta cambiando e che si sta indirizzando verso esperienze e linguaggi sempre più articolati e concettuali.

In copertina: Ed Ruscha, Dodgers Stadium – 1000 Elysian Park Ave, 1967, detail, in Thirtyfour Parking Lots in Los Angeles (1967), silver prints, cm 9.4 x 39.4. © Ed Ruscha. Courtesy Gagosian Gallery.

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[1]G. Chiurazzi, Jean-François Lyotard. Postmoderno come delegittimazione dei metaracconti (1986), in Il postmoderno, Milano, Mondadori, 2007, p. 130

[2] C. Greenberg, Le ragioni dell’arte astratta, in Clement Greenberg: L’avventura del modernismo. Antologia critica, Milano, Johan & Levi, 2011. Nel motivare la tendenza antinaturalistica dell’arte astratta, Greenberg traccia una vera e propria linea evolutiva che partendo dall’Impressionismo arriva sino alle espressioni artistiche della fine degli anni Cinquanta.

[3] L. Steinberg, Neodada e pop: il paradigma del “pianale”, in G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, Roma, Laterza, 2008. Al contrario di Greenberg, Steinberg non concepisce la storia dell’arte come un continuum in cui le varie espressioni artistiche sono l’una la necessaria conseguenza dell’altra. Nella pittura di Rauschenberg viene individuata una frattura, uno stacco netto rispetto all’Espressionismo Astratto e in generale rispetto alle modalità compositive più recenti. Ciò che ora viene preso in considerazione è il riferimento psichico dell’immagine e il suo nuovo rapporto con lo spettatore.

[4] Greenberg nel suo saggio Astratto e figurativo descrive con immagini suggestive quello che, secondo la sua opinabile teoria, era il fine ultimo della pittura naturalistica: «Da Giotto a Courbet, il primo compito del pittore era stato quello di plasmare un’illusione di spazio tridimensionale. Questa illusione era concepita più o meno come un palcoscenico animato da un accadimento visivo, e la superficie del quadro come la finestra attraverso cui guardare il palcoscenico».

[5] L. Steinberg, Op. cit., p. 122

[6] R. Krauss, Y.-A. Bois, Orizzontalità, in L’informe. Istruzioni per l’uso, Milano, Mondadori, 2008, pp. 96 – 98

[7] C. Greenberg,  Op. cit.

[8] N. Cullinan, Robert Rauschenberg. Fotografie 1949 – 1962, Milano, Johan & Levi, 2011, p. 8

[9] C. Cheroux, La serendipity in fotografia, in L’errore fotografico. Una breve storia, Torino, Einaudi, 2013, p. 92, Un simile modo di fotografare, cioè di porre un oggetto a diretto contatto con la carta fotosensibile, era già stato sperimentato a metà Ottocento da William Henry Fox Talbot, e successivamente nelle rayografie da Man Ray, come egli stesso dichiara: «Io ho sfruttato un altro genere di incidente per creare i miei rayogrammi. Un giorno, mentre ingrandivo delle foto, un oggetto è finito per caso sulla carta lasciandovi il segno. Allora ho posato arbitrariamente sulla carta fotografica delle chiavi, delle catenelle, qualche lapis, lasciando alla luce il compito di imprimervele. [..] Ero incappato in un procedimento consistente nel fare delle fotografie senza macchina fotografica».

[10] N. Cullinan, Op. cit.

[11] Ivi

[12] C. Greenberg, Op.cit., p. 390

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