SANREMO 2017 // UN PODIO A 5 POSTI

di Jamila Campagna

La canzone italiana è un affare strano: iconica, eccellente, autoriale, alcune volte; scialba e approssimativa altre volte. Mi sono sempre data come regola di non scrivere per stroncare, un po’ per umiltà, un po’ per sana economia di spazio e di tempo. In questa occasione faccio uno strappo alla regola, perché – in questo Sanremo 2017 – quello che ho amato e quello che ho considerato scadente sono così intrecciati tra loro da non poter parlare dell’uno se non insieme all’altro.

C’è uno splendido libro di Nick Hornby che è il racconto in prima persona delle vicende sentimentali di un trentenne londinese appassionato di musica, un romanzo che proprio per questa passione si intitola Alta Fedeltà, High Fidelity, quella hi-fi dei giradischi (e poi dei mangianastri e poi dei cd) che è la promessa di un ascolto sopraffino, oltre che un doppio senso che mette sullo stesso piano – e sulla stessa onda – le faccende del cuore e le faccende del suono. In fondo, Pathos e Mūsikḗ, è una storia antica. Tornando a Sanremo 2017, come il protagonista di Alta Fedeltà fa continue Top 5 di ogni cosa, così anche io mi concentro sui primi 5 classificati. I primi 5, sì, non i primi 3, perché il podio a tre gradini questa volta non bastava.

Ha vinto la scimmia nuda che balla. La scimmia nuda sono gli esseri umani, secondo l’antropologo Morris che Francesco Gabbani ha iniziato a citare già dall’ultima notte del Dopo Festival, quando un giornalista gli chiedeva se diventeremo scimmie nude e il cantante gli rispondeva che lo siamo già. Ma quando sei dentro una canzone – dentro una poesia, dentro l’opera d’arte in generale – se una cosa la devi spiegare vuol dire che c’è qualcosa che non funziona.

Ora che il Festival è finito, la bolla della festa è scoppiata e già da ventiquattro ore l’informazione è tornata a parlare di politica, di attualità, di drammi. I palinsesti sono stati ripristinati a sbatterci in faccia le cose scomode. Ma d’altra parte l’intrattenimento serve proprio a questo: a staccare la spina, a distrarsi, a riempirsi le orecchie e gli occhi, lo spirito, di qualcosa che ci faccia respirare un po’ di più. E così si canta appresso alle canzoni, si balla, si guarda lontano e ci si guarda dentro. Dice bene Michele Monina, nel suo resoconto finale del Festival, quando, riferendosi al primo gradino del podio, dice che agli italiani piace la Supercazzola. Ma la vera Supercazzola ha la caratteristica di non significare niente sia nella forma che nel contenuto, è una frase fatta di suoni che ricordano parole e sembrano dire, è qualcosa che sfugge perché frase non è. Invece Gabbani fa un’accozzaglia di parole appartenenti alla presunta cultura “alta” – che lui prende in giro – e le mette in sequenza per fare un trattato scioglilingua che non dice assolutamente nulla: significati insignificanti. Quasi come la banana che ‘ndo vai se non ce l’hai ma comunque non come se fosse antani. Il tormentone di Gabbani non ci libera nel non-sense (e ora si affollano a leggerci dentro Shakespeare, Eraclito, Schopenauer), non ci fa guardare lontano e non ci fa guardare neanche dentro. Gabbani svuota e basta.

Non affondo la critica su Fiorella Mannoia, seconda classificata con un inno alla vita un po’ scontato, perché non voglio infierire nel rispetto di tutta la sua carriera e del suo valore, quasi certa che lei stessa sapeva di essere sottotono, sia nella canzone che nella performance.

Riprendo Alta Fedeltà di Hornby; nel libro c’è un monologo (presente anche nell’altrettanto brillante adattamento cinematografico), un insight sulla musica e sulla vita, non senza ironia:

Cosa è venuto prima, la musica o la sofferenza? Ascoltavo la musica perché soffrivo? O soffrivo perché ascoltavo la musica? Sono tutti quei dischi che ci fanno diventare malinconici? La gente si preoccupa perché i ragazzini giocano con le armi, perché gli adolescenti guardano film violenti; c’è la paura che nei giovani finisca per imporsi una specie di cultura della violenza. Nessuno si preoccupa dei ragazzini che ascoltano migliaia di canzoni – migliaia, letteralmente – che parlano di cuori spezzati, e abbandoni e dolore e sofferenza e perdita.

Cesare Pavese ne Il Mestiere di vivere dice che “la grande, la tremenda verità è: soffrire non serve a niente.” La sofferenza è inutile per capire il senso dell’esistenza; forse ciò che fa la differenza è come scegliamo di usare il dolore che abbiamo, come lo trasformiamo in risorsa, per guardare dentro le cose, e anche per guardare sul fondo di se stessi. Lo raccontano le canzoni di chi ha parlato della sua esperienza personale, dei suoi tormenti e delle sue soluzioni, dal terzo alla quinta in classifica: Ermal Meta (con Vietato Morire), Michele Bravi (con Il diario degli errori), Paola Turci (con Fatti bella per te) hanno cantato di sentimenti senza cliché e senza retoriche, con testi e musica che trasformano dolore e insicurezze in orgoglio e coraggio, in fiducia in se stessi, rivoltando il lato tremendo della vita in un’occasione migliore. Tre canzoni che ruotano attorno a degli oggetti mistici: un ciondolo magico, un diario degli errori, un’emozione tanto forte che è capace di cambiarti il nome. Tre canzoni che raccontano qualcosa di diverso ogni volta che le andiamo a riascoltare. E, dato che Sanremo è il Festival della canzone italiana, in un gioco di specchi, la Musa del Festival è proprio la Canzone stessa. La più iconica di questa edizione è senz’altro quella portata da Paola Turci, tra consensi di pubblico e critica, Fatti bella per te, brano superlativo scritto dalla Turci con i migliori autori del panorama italiano: la penna sopraffina di Giulia Ananìa, cantautrice e già autrice di gemme come Io di te non ho paura di Emma (2015) e Differente di Nek (2016), il produttore e arrangiatore Luca Chiaravalle e Davide Simonetta.

Al Festival non possiamo chiedere quale sia il senso della vita. Ma il Festival ci invita a chiederci qual è il senso di scrivere canzoni, di inciderle e di salire su un palco a cantarle.

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