LO STRANO CASO DI RE CECCONI // INTERVISTA A GUY CHIAPPAVENTI

a cura di Luca Picozzi Di Monaco

Aveva un volto bianco e tirato. Il caso Re Cecconi (Tunué) è il libro di Guy Chiappaventi in cui il giornalista ricostruisce l’episodio delittuoso che vide il famoso calciatore della Lazio cadere sotto i colpi di pistola di un gioielliere. Proprio nel negozio di quest’ultimo Luciano Re Cecconi fece ingresso in orario di chiusura, la cosiddetta ora brutta, in una Roma chiusa nella morsa del freddo di gennaio e della paura che nel 1977 aleggiava per le strade delle grandi città italiane.
Quella di Chiappaventi non è un’operazione revisionista, ma piuttosto un’indagine dettagliata forte di una grande raccolta di documenti, una ricerca accurata e paziente che pone degli interrogativi e fa emergere tutti i dubbi sul caso cercando delle spiegazioni e scandagliando il terreno per analizzare altre possibili versioni dei fatti.
Un’operazione giornalistica volta a riabilitare la figura di un giovane padre nel pieno della carriera, che dal giorno della sua morte sconta la damnatio memorie di essere considerato come lo scemo del villaggio, che incautamente, in un clima di violenza diffusa, avrebbe perso la vita per fare uno stupido scherzo. In effetti è troppo semplice liquidare Re Cecconi come quello che se l’è cercata.

Il libro Aveva un volto bianco e tirato si riferisce alla fisionomia del protagonista di questa storia, Luciano Re Cecconi; puoi delinearci le caratteristiche della sua figura?
Sì, il libro ha come protagonista Re Cecconi, calciatore molto famoso a Roma negli anni ’70, che ha vinto lo scudetto con la Lazio nel 1974 e, sempre in quell’anno, ha partecipato – anche se solo da riserva – ai Campionati del Mondo; è uno che ha fatto la gavetta, che viene dall’hinterland di Milano, un tipo tosto, concreto, un lombardo proveniente da una famiglia povera di mezzadri, una famiglia operosa con quattro figli. Hanno difficoltà a mettere insieme il pranzo e la cena, allevano mucche e mangiano latte a colazione, pranzo e cena con i biscotti, con il riso, con le patate. Lui comincia a lavorare da ragazzino riparando le resistenze dei ferri da stiro, poi si mette a fare il meccanico in una carrozzeria svegliandosi la mattina alle 4, mentre il pomeriggio si allena con il Pro Patria a Busto Arsizio.

L’altra figura in questa storia è l’orafo che ha sparato il colpo mortale. Cosa sappiamo di lui?
L’altro protagonista o, se vogliamo, l’antagonista della storia è un orafo, che a suo modo ha una storia parallela a quella di Re Cecconi perché viene anche lui dalla provincia, dalle Marche, da Porto Recanati, da madre rimasta vedova durante la guerra. Anche loro sono molto poveri e vengono a Roma a cercare fortuna. Vivono tramite un commercio di tessuti fatti in casa nel quartiere Prati, non hanno un negozio. Bruno Tabocchini – questo il nome dell’orafo – decide di fare l’orafo iniziando gratuitamente come garzone, tanto che sua nonna dà i soldi al suo datore di lavoro per pagare il nipote, affinché faccia finta di retribuirlo per non farlo scoraggiare. Questo succede fino a quando non riesce ad aprire un’attività sua in un quartiere nuovo che sta crescendo a Roma Nord: il quartiere Fleming. All’inizio è soltanto un laboratorio, poi nel 1963, nella Roma del boom economico, apre questa attività dove lavora solo con la moglie. Questo negozio sarà un po’ tutta la sua vita.

Re Cecconi ha fatto parte di una Lazio iconica in cui ognuno era un personaggio e aveva un soprannome. Quale importanza hanno i soprannomi in questa storia?
I soprannomi – che sono un po’ la mia ossessione – contano molto, contano quando andavamo a scuola, contano nei gruppi, contano nelle relazioni, contano nelle redazioni dei giornali, e in “questo gruppo di pazzi selvaggi e sentimentali” – come ho definito la Lazio del ’74 in un altro libro – hanno tutti un soprannome: Chinaglia, il pirata cattivo Long John Silver; Wilson è il padrino o il baronetto; Petrelli, che ha portato la moda delle pistole nella squadra, viene chiamato il Pedro, come in uno Spaghetti Western di Sergio Leone; Gigi Martini è il comandante, poiché ha questa ambizione un po’ d’annunziana di fare il pilota d’aereo, il parà; Re Cecconi in questo gruppo è soprannominato Il saggio, perché è quello che ha la testa sulle spalle più di tutti.

Vista la vicenda, non è paradossale che tutti lo chiamassero il saggio? E non è altrettanto strano che il luogo in cui accadde il delitto sia il quartiere Fleming?
Il luogo in cui si consuma il fatto è via Francesco Saverio Nitti, una traversa di via Flaminia nuova, nel quartiere Fleming, quartiere storicamente della Lazio perché vicino al campo di allenamento di Ponte Milvio. Lì abitano un po’ tutti i calciatori della Lazio. Hanno il loro ritrovo in un bar della zona. Lì abita l’allenatore Maestrelli e tutt’ora questo quartiere conserva quella dimensione. Ci ha vissuto Zeman quando allenava la Lazio, spesso ci andava Zoff e lì subì anche una rapina; adesso ci vive Inzaghi. E’ casa loro, è il loro feudo. Tant’è che quando Re Cecconi morì la Gazzetta dello Sport scrisse “pare che Tabocchini fosse l’unico della zona a non conoscere il calciatore e non sapere che questa zona era frequentatissima dai calciatori della Lazio”. Inoltre Re Cecconi era molto famoso perché era un campione ed era biondissimo, quasi albino e facilmente riconoscibile a distanza, anche per la sua andatura. Il calciatore passava per quella strada tutti i giorni. Era molto conosciuto e molto riconoscibile.

Il tragico evento accade in un periodo storico terribile per l’Italia. In particolare nel ’77, anno di grande violenza sociale e politica, documentato nel libro attraverso i dati della Procura Generale del Tribunale di Cassazione. Puoi delinearci l’ambientazione storica?
Il ’77 è l’altro protagonista del libro. Il libro non è un libro di calcio; di calcio ce n’è pochissimo. Il ’77 è un ’68 rovesciato, di pura violenza, un anno lunghissimo che comincia con la cacciata di Lama, l’allora segretario della CGIL, dall’università da parte degli autonomi, i cosiddetti indiani metropolitani e poi prosegue per altri 13 mesi sino al sequestro di Aldo Moro. In mezzo ci sono una serie di fatti di grande violenza: c’è la morte di Giorgiana Masi il 12 Maggio su Ponte Garibaldi; la banda della Magliana comincia a mettere in piedi il sequestro del nobile Lante della Rovere; il delitto Re Cecconi avviene qualche giorno prima che le Brigate Rosse sparino all’ispettore del carcere di Regina Coeli. Al cinema questo clima viene rappresentato da film come Milano odia e la polizia non può sparare, tutto quel filone poliziottesco, molto pop, detestato dai critici che lo considerano trash, volgare, violento, una serie di film tutti uguali che va a sostituire il filone dello Spaghetti Western; al posto dei cavalli ci sono le motociclette, al posto dei fucili Winchester le P38.

Nella tua ricostruzione però emergono molti aspetti contrastanti. Lo scenario sembra quello di un thriller hitchcockiano con molti personaggi presenti che sembrano non riuscire a ricordare esattamente quali siano state le dinamiche.
Ciò che avviene all’interno della gioielleria è molto controverso perché alcuni testimoni, come il giocatore della Lazio che accompagna Re Cecconi, Pietro Ghedin, cambiano varie volte la versione dei fatti. Le testimonianze non sono tutte uguali e sembrano non attendibili. Alla fine viene accreditata la tesi di uno scherzo: Re Cecconi avrebbe fatto ingresso dicendo una frase come “fermi tutti è una rapina” o qualcosa del genere. Questa tesi si afferma malgrado un profumiere (altro personaggio della storia ndr.) che accompagnò Re Cecconi lì e che lo stesso pomeriggio era già stato altre due volte in gioielleria ,dato che la sua profumeria era a 80 metri di distanza, dichiarò che il calciatore non avesse mai detto la parola “rapina”. Invece il gioielliere sua moglie ed un macellaio della zona – anch’esso presente nella gioielleria in quel momento per un acquisto – affermavano il contrario. Non si sa bene cosa disse Re Cecconi.


La tua indagine giornalistica è documentata nel libro anche attraverso la testimonianza delle prime pagine dei giornali pubblicati nei giorni seguenti il delitto e che fa da specchio al sentire comune dei cittadini.
Re Cecconi e Tabocchini si incontrano il 18 Gennaio del ’77. Lo stesso pomeriggio a Roma c’è un’altra rapina a Trastevere in Via del Moro, dove viene quasi ucciso un gioielliere. Due settimane dopo, mentre cominciava il processo, a Verona, in una rapina, venne ucciso un gioielliere. Racconto questo per sottolineare la frequenza con cui accadevano rapine e omicidi all’interno delle gioiellerie, molto più alta rispetto a quanto accadesse in banca o in posta. Molto spesso i gioiellieri non erano neppure assicurati perché le rapine erano così frequenti che alle assicurazioni non conveniva assicurare o comunque avevano dei premi altissimi, per questo “nelle gioiellerie si spara”. Tabocchini, invece, è assicurato per cinquanta milioni di lire, valore superiore a quello della merce in negozio, ha già subito diverse rapine e nell’ultimo anno ha sparato due volte di cui una volta ha quasi ucciso un bandito, un balordo di Primavalle, per cui fu premiato con una medaglia dall’Associazione Orafi di Roma. In questo clima era considerato un eroe. Vi fu un movimento popolare fortissimo in favore dell’orafo, prima per la sua scarcerazione e poi per la sua assoluzione. Il PM nella requisitoria dichiarerà di aver ricevuto decine e decine di lettere per chiedere la scarcerazione dell’orafo, anche lui padre di famiglia, che si è difeso. La sentenza comincia con una motivazione psicologica dicendo che bisognava tener conto de l’ordre dans la rue.

La legittima difesa e la percezione della sicurezza è uno dei temi più dibattuti sui mezzi di informazione negli ultimi mesi. Questa condizione non ricorda un po’ il clima attuale?
Questa è una delle cose che rendono attuale il libro. Occupandomi di cronaca giudiziaria ho approfondito anche questo aspetto: Il PM chiede tre anni, ma il giudice Severino Santiapichi, che si occuperà poi anche del caso Moro, uno dei giudici più importanti di quel periodo, assolve il gioielliere per legittima difesa. Il caso si chiude in meno di tre settimane poiché il processo si svolge per direttissima, cioè cristallizzando le prove che c’erano in quel momento, e non viene fatto un processo d’appello perché la procura generale decide di rinunciarvi, nonostante il PM in primo grado abbia presentato i motivi di ricorso all’appello. Un caso rapidissimo nella lentezza del sistema giudiziario italiano.

Grazie per la tua disponibilità a concederci questa intervista. Per concludere, possiamo chiederti qual è la passione personale che ti ha spinto alla stesura di questo libro?
Ci sono varie componenti che mi hanno spinto a raccontare questa storia. Non c’è dubbio che abbia una passione per la Lazio; sono nato nel ’68, ero bambino in quegli anni, non ero particolarmente tifoso all’epoca, ma senza dubbio quell’episodio mi colpì molto e appartiene ad un periodo evocativo per il mio vissuto personale. Devo anche dire che chi si occupa di cronaca giudiziaria ha un interesse particolare per gli anni ’70. E’ evidente che ci sia un motivo passionale alla base: Re Cecconi è stato il giocatore più disgraziato della storia della mia squadra e la sua vicenda inquadra perfettamente gli anni ’70.

Possiamo dire che Re Cecconi è una sorta di antieroe?
Sì, è sicuramente un antieroe.

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